RECENSIONE di LUIGI CATALDI
Nel film La vita e nient'altro Bernard Tavernier narra la storia di un ufficiale francese, che, subito dopo la fine della prima guerra mondiale, si dedica, con cura maniacale, al conto dei morti e all'intento di ridare un nome ai dispersi. Se, come scrive Primo Levi, perdere il nome significa “giacere sul fondo”, raggiungere, cioè, l'ultimo stadio dell'annientamento, allora, l'attività del paranoico ufficiale rappresenta il contrario della retorica celebrazione del milite ignoto: dare un nome ai morti è un modo per onorare la dignità delle vittime. E' dalle vittime, dalla loro storia umana, non politica o ideologica, che si comprende il senso, anche politico e ideologico, di quegli avvenimenti. E' in questo modo che, fin dal titolo, Guido Rumici, nel suo ultimo libro, Infoibati (1943-1945). I nomi, i luoghi, i testimoni, i documenti, pubblicato recentemente dall'editore Mursia, rievoca la memoria di migliaia di italiani della Venezia Giulia, dell'Istria e della Dalmazia, che furono arrestati e deportati dai partigiani del Movimento di liberazione jugoslavo di Tito in due ondate successive, nel settembre-ottobre del 1943 e nella primavera del 1945, e che non fecero più ritorno a casa. Alcuni di essi furono fucilati, altri seppelliti in fosse comuni, altri ancora annegati nell'Adriatico, oppure deportati nei campi di concentramento jugoslavi, per morirvi di stenti e di sevizie. I più furono gettati nelle numerosissime cavità che si aprono nel suolo carsico, profonde fino a trecento metri: le “foibe”. E' per il suo valore orribilmente simbolico che questo termine è ormai comunemente impiegato per indicare non solo la pratica dell'“infoibamento”, ma anche l'intera drammatica vicenda storica.
Se in passato le autorità jugoslave hanno sempre fortemente ostacolato la rievocazione di questi avvenimenti, in Italia l'accettazione degli equilibri politici della guerra fredda ha fatto in modo che il dramma delle foibe venisse ignorato dall'opinione pubblica e dalla storiografia ufficiale e relegato al solo ambito locale. Oggi, dopo il tramonto del mondo bipolare, è possibile analizzare i fatti con maggiore oggettività. Il presidente della Repubblica di Slovenia ha recentemente detto che “la pietà per i morti ci impone che questi non vengano sfruttati per le dispute della politica”. Rumici, nella sua ricostruzione, fa suo questo intento e lo pone a fondamento del proprio metodo di indagine. L'uso di fonti italiane, slave e inglesi, alcune delle quali di recente accesso, e la centralità dei fatti nella ricostruzione permettono all'autore (che, sia detto per inciso, è insegnante di economia aziendale e storico con all'attivo numerosi saggi sulla storia della Venezia Giulia e della Dalmazia, fra cui Fratelli d'Istria, dedicato alle condizioni degli italiani d'Istria dal dopoguerra ad oggi) una ricognizione il più possibile non ideologica dei fatti.
Introdotto da un puntuale inquadramento storico, il dramma delle foibe è ricostruito minuziosamente: dal computo delle vittime, alla rievocazione degli eccidi, alla ricostruzione dell'identità e della vicenda personale dei martiri. In rilievo sono poste, poi, le storie più significative. Quella di Norma Cossetto, la cui vita (appassionata studentessa di lettere alle prese con la tesi, da discutere a Padova, relatore Concetto Marchesi, sulla sua terra istriana, rossa di bauxite) è misura della crudeltà del suo martirio: dopo l'arresto venne violentata e seviziata a lungo e infine gettata nella foiba di Villa Surani nella notte fra il 4 e il 5 ottobre 1943. Quella di don Francesco Bonifacio, sacerdote di Villa Gardossi, presso Buie, ucciso, in circostanze ancora ambigue, l'11 settembre 1946 a 34 anni. Quella dell'intera famiglia Faraguna di cinque persone, fra cui una bimba di pochi mesi e molte altre ancora.
E' solo dopo la ricognizione dell'entità della tragedia (da seimila a oltre diecimila vittime) e dopo la rievocazione dei nomi, delle storie e dei fatti, che Rumici propone le sue “linee interpretative”. Ci fu un disegno premeditato negli eccidi o fu solo l'esplodere di un incontrollato odio? Le analogie fra le modalità degli arresti e delle esecuzioni, nei diversi luoghi e nelle diverse epoche; la scelta delle vittime, non solo fra i fascisti, ma anche fra i rappresentanti dello Stato italiano (insegnanti, carabinieri, consiglieri comunali, bidelli) o fra coloro che costituivano un ostacolo per il disegno di egemonia jugoslava sulla Venezia Giulia, come gli stessi esponenti del CLN (accadde, per esempio ai goriziani Licurgo Olivi ed Augusto Sverzutti), a cui non era possibile attribuire alcuna collusione col regime fascista; l'impiego sistematico di vere e proprie liste di ricercati: tutto ciò dimostra che fu un piano preordinato e, se non apertamente sostenuto da Tito, certamente visto da lui con favore.
Completano l'opera una serie di testimonianze, in gran parte raccolte direttamente dall'autore, e una raccolta di documenti, fra cui spicca la “Relazione Harzarich”, il maresciallo dei Vigili del Fuoco, che fra l'ottobre del '43 e il febbraio del '45 ispezionò molte foibe e recuperò e identificò numerosissime salme. La relazione è forse il più importante contributo alla memoria delle vittime. Il libro di Rumici ne è, in un certo senso, la continuazione ideale.
Luigi Cataldi